Scacciapensieri

Davanti al negozio c’erano due cartelli affissi accanto alla vetrina, sul muro annerito dagli anni e dallo smog.
Quello in alto era un avviso che Pamela non si stupì di trovarci, scritto a mano con pennarello verde su un cartoncino bianco: – Cercasi Commessa-. In fondo lei si trovava lì davanti proprio per il motivo indicato in quella scritta.
L’altro cartello, un po’ più piccolo del primo era invece plastificato, di colore arancione con i caratteri prestampati: -Vendesi- .
Sotto era stato aggiunto, al tratto corsivo, qualcosa di illeggibile, ed il numero di un cellulare che lei, invece, riconobbe: era lo stesso numero di telefono che aveva composto anche lei quel mattino, dopo averlo scovato, grazie agli occhiali inforcati sulla punta del naso, tra le righe fitte fitte degli annunci gratuiti nella rivista Bric a Brac.
Pamela quel mattino aveva fatto molti tentativi per sondare la possibilità che un primo lavoro per lei ci fosse. Soltanto chi le aveva risposto da quel numero di cellulare, fissandole un appuntamento in quello stesso pomeriggio per un colloquio, le aveva dato un piccolo barlume di speranza.
Dinanzi al cartello con la scritta -Vendesi- l’entusiasmo si smorzò come un tradimento in agguato e si diede della sciocca.
Ripensò alle speranze che aveva nutrito sin da quando, dopo la doccia, aveva passato la piastra per lisciare i capelli biondo cenere, quando il suo pensiero si era rivolto al cosa avrebbe indossato. Aveva scelto la gonna color smeraldo che lasciava scoperte le caviglie a partire da sopra al ginocchio. Non aveva indugiato per la trasparenza dei Venti Den nel naturale color carne delle calze. Sicurissima per le scarpe, con il tacco da otto centimetri che l’avrebbero slanciata oltre il metro e settanta. Indecisa sul maglioncino, aveva risolto per quello color tabacco, quello che avrebbe evidenziato il seno ben modellato dal reggiseno a balconcino. E sopra, il trench, quello sagomato color latte e miele, con la cintura da annodare stretta in vita.
Con le idee chiare si era truccata, scegliendo sfumature luminose, e con lo stesso entusiasmo si era vestita, aggiungendo la sciarpa ed il cappello in lana nocciola. Poi, era uscita di casa e trasportata dalla speranza si era abbandonata nel reinterpretare le piccole espressioni facciali, davanti allo specchietto tondo che portava ovunque con sé dentro la borsa cuoio di Carpisa, mentre era seduta nel treno della circumvesuviana che dal quartiere di Barra la conduceva fino a Portici. Neanche lo zigzagare sul marciapiede, evitando i cumuli di immondizia che costellavano il percorso per arrivare a piedi in via Dalbono dove si trovava il negozio, le aveva modificato l’umore.
Come gli altri partenopei Pamela si era abituata alla puzza, non avvertendola più sin dai primi giorni del disagio. Dalle immagini che Pamela aveva visto in televisione, l’olezzo doveva essere lo stesso che respiravano tutti gli abitanti delle città abbarbicate e distese a cingere il Vesuvio. “Ci avrebbe pensato il gigante della montagna a sterilizzare tutto il circondario con un’esplosione da incazzatura che avrebbe sepolto tutto e tutti” la frase le era rimasta in mente, evocata da uno speaker della Radio Napoli Centrale. Quel che appariva certo era che non esistevano più quartieri senza immondizia disseminata lungo le strade. E a nulla era servito ripulire le vie del centro storico, quando si era paventata la possibilità che il Presidente della Repubblica potesse arrivare, per un soggiorno in quella che era anche la sua città natale. Non era bastato nascondere agli occhi le tonnellate di spazzatura: il fetore era rimasto a galleggiare sospeso nell’aria, come un brutto presagio che ipotecava il futuro della città.
Un brutto presagio, come quel cartello che recitava -Vendesi- .
Non era il momento di cincischiare sull’eventuale precarietà che potesse derivare da quel lavoro che avrebbe voluto ottenere. “A trovarlo un lavoro” ripeté mentalmente, pensando che stava per affrontare il colloquio per la conquista della prima occupazione. Pamela aveva indugiato guardando il riflesso che la vetrina le restituiva: una donna ancora piacente. Non aveva mai dovuto lavorare e anche adesso avrebbe potuto continuare a starsene a casa. Ma, la sua casa era tropo silenziosa da quando anche Diego era andato via. Armando, suo marito, l’aveva lasciata vedova da tre anni. Lei non aveva grossi pensieri sul come tirare a campare o su come mantenere gli studi di Diego. Infondo, era una privilegiata con quell’appartamento di proprietà ed il mutuo già estinto, con la reversibilità della pensione che le era stata riconosciuta, e di cui beneficiava, avendone suo marito maturato il diritto, prima di spiaccicarsi mentre stava conducendo il pullman nell’autorimessa. Sulla stessa strada che per ventotto anni aveva percorso per conto dell’Azienda Napoletana per il Trasporto. Anche se non poteva definirsi agiata, Pamela non aveva grossi problemi economici. Un lavoro per lei significava evadere dalle mura, dalle cognate sfinenti, dalle sorelle premurose che un marito a casa l’avevano ancora.
Pamela aveva bisogno di tornare ad incontrare la gente, le persone, fatte di carne, ossa, fiati, emozioni . Non le bastava più stare chiusa nel suo piccolo mondo quotidiano, scosso soltanto da quei pochi incontri di parole, dove all’emozione seguivano le bugie, ai sentimenti la falsità dei rapporti, che aveva scoperto attraverso le fessure degli scuri del monitor del computer. Pamela non voleva soltanto parole, neanche quelle che viaggiavano roboanti e veloci, che finivano per sembrarle come i motorini truccati quando sfrecciavano in strada facendo un gran fracasso. Lei desiderava tornare alla passione, quella da leccare insieme al sudore. Bere a gargarozzo l’umore e la vita. Non era stato semplice decidere come e cosa fare, per tornare nel mondo. Sapeva badare alla casa, alle persone, ma non era il lavoro da cercare quello del fare splendere la casa degli altri. Si era chiesta se ce l’avrebbe fatta senza un curriculum e nessuna raccomandazione.
Pamela aveva avuto poco da scegliere tra gli annunci del giornale, e scartando scartando, da ipotesi in ipotesi, era finita per leggere e dare più importanza ai trafiletti meno accattivanti, convinta che qualcosa di positivo le sarebbe capitato.
Qualcosa di positivo le era capitato quelle volte che il suo desiderio le aveva acceso il sorriso per una cometa inattesa. La vita era stata generosa di possibilità, quando anche lei le sorrideva: quando aveva conosciuto Armando, quando l’aveva sposato, quando era nato Diego, quando a Capri aveva incrociato quegli occhi da indiano e l’idea folle di farsi rapire per una notte da quell’uomo si era realizzata. E che nella vita non bastano soltanto i desideri, sapeva anche questo, ed infatti si era vestita nel modo che la rendesse totalmente a proprio agio per quell’appuntamento. Sapeva che ripartire voleva dire soprattutto muovere i primi passi, superando le difficoltà, poi i piedi avrebbero trovato da soli la via positiva. La puzza di Napoli quel giorno non la sfiorava, pensando all’uomo che le aveva risposto nella telefonata mattutina.
Le aveva fatto una buona impressione già dalla voce senza una particolare inflessione dialettale, e soprattutto perché questi non le aveva rivolto le domande sulle quali si erano infranti i sogni nelle altre telefonate del mattino. Quando, dopo aver detto o lasciato intendere la sua età, dall’altro lato, nella voce sentiva il gelo del disinteresse spandersi.
Il signor Brazzicone si era limitato a confermare di aver messo l’annuncio sul Bric a Brac e le aveva comunicato che l’attendeva per le ore quattro e mezza, orario di apertura pomeridiana dell’attività –Chi cerca trova-.
La vetrata era spoglia, un intero pannello in mogano con un portellino che sembrava una finestrella dalla quale i detenuti affacciano gli occhi per i glaciali corridoi del carcere. Sul legno in faggio chiaro c’era intarsiata la scritta Chi cerca trova. Lo stesso nome era ripetuto in inglese, francese, spagnolo e probabilmente cinese, se gli ideogrammi non erano quelli della traccia giapponese.
Pamela provò a spingere la porta dell’ingresso, poi provò a tirarla a sé, ma in entrambi i casi la porta non si mosse. Guardò l’ora.
Era arrivata con cinque minuti di ritardo, ma evidentemente un largo anticipo, pensò, se il negozio era ancora chiuso.
Le automobili scorrevano caotiche come sempre, gli scooter sfrecciavano silenziosi, i motorini sempre più sgarrupati con le marmitte che monopolizzavano il rimbombo nei timpani. Le persone camminavano affaccendate. Impressionante il numero di quelli che parlavano al cellulare. Pamela, dopo un colpo d’occhio, si disse che circa la metà lo stava facendo.
Prese il suo telefono dalla borsa e compose il numero di telefono del signor Brazzicone: sarebbe stato un passo avanti quel presentarsi “puntuale” con la telefonata all’uomo che sperava sarebbe diventato il suo datore di lavoro. Gli squilli andarono a vuoto, mentre Pamela si accorgeva, dal riflesso della vetrina, che non aveva indossato un orecchino. Controllò con le dita, accarezzandosi il lobo, pinzandolo tra il polpastrello del pollice e il dito indice riverso nel pugno socchiuso. Aveva spostato il cellulare sull’altro orecchio e rilanciato la chiamata. Aveva verificato che anche il riflesso dell’altro orecchio non mentiva: si era dimenticata di indossare gli orecchini.
“Pronto.”
“Signor Brazzicone? Sono Pamela Caiazzo. Si ricorda che avevamo un appuntamento per oggi alle quattro e mezza?”
“Sì. Sì le sto aprendo” rispose l’uomo che al contempo dall’interno schiudeva la porta del negozio.
“Ah, bene, sono qui davanti” aggiunse Pamela, quando già aveva di fronte a sé quello che doveva essere il proprietario dell’esercizio.
“Eh già” rispose l’uomo, continuando a parlare al telefono con la donna. Pamela, nonostante fossero a meno di mezzo metro di distanza, aggiunse “Sì” non staccando il microfono del cellulare dalla bocca.
Risero entrambi.
Al Brazzicone scivolarono di mano le chiavi con cui aveva aperto la serratura.
La Caiazzo infilò il cellulare dentro la borsa, dimenticandosi di pigiare il pulsante che avrebbe interrotto la telefonata.
Brazzicone sobbalzò per il botto che raggiunse il suo timpano, causato dal cellulare che sbatté sull’involucro rigido dello specchietto che era nella borsa di Pamela.
“Si è dimenticata di chiudere la chiamata” disse lui
“Ops, è vero” rispose lei, ripescando il cellulare ed interrompendo quella che sarebbe stata la discesa libera dei trenta euro di credito che c’erano nella scheda telefonica.
“Pamela Caiazzo.” Porgendo la mano destra disse la donna.
“Eduardo Brazzicone. Mi scusi, dovevo essere io a presentarmi, ma anche ad accoglierla cinque minuti fa, all’ora del nostro appuntamento.” Bisbigliò l’uomo stringendo la mano di Pamela.
“Sta scherzando, vero?”
“No, non sto scherzando.” Rispose il titolare del negozio, continuando a tenere la mano in mano. Aggiunse “La vecchiaia, sa? Stavo cercando dentro e mi ero dimenticato di sbloccare la serratura della porta.” Il palmo caldo della mano di lei era piacevole da reggere.
“Non si preoccupi signor Brazzicone, va tutto bene.” Rassicurò Pamela, arrossendo leggermente per quel contatto protrattosi prematuramente già abbastanza.
“Sì.”
Le mani si staccarono.
“La prego si accomodi.”
Fu lui ad invitare lei ad accomodarsi dentro al Chi cerca trova, lasciando libero il passaggio della porta d’ingresso. Pamela entrò, Eduardo guardò l’ora sul display del cellulare che reggeva nella mano sinistra. In una brevissima frazione di pensiero constatò che era davvero in ritardo, quando già i suoi occhi erano per Pamela che entrava dentro al negozio con una leggerezza sinuosa nell’incedere. Era rimasto a trattenere il fiato, per l’inattesa sorpresa della rivelazione dell’aspetto e dei modi di quella femmina.
Nel colpo d’occhio dello stanzone che doveva essere il negozio, Pamela ebbe il dubbio d’essere entrata in un luogo sovrabbondante ma vissuto, non dando l’impressione che fosse un esercizio commerciale.
La parete dei libri era stipata di enciclopedie e testi dai dorsi più disparati, nei colori, nelle dimensioni.
I vari angoli ricreati, da quello con la macchina per cucire Singer la cui ghisa nera assorbiva la luce dei faretti che le puntavano addosso, ai vari telai, dove adagiati sopra c’erano pregiati drappi di corredo, all’angolo della musica con il grammofono e dischi in vinile stipati su una mensola accanto il pianoforte a coda sul quale erano adagiati diversi strumenti musicali, liuti, legni, ottoni.
L’altro angolo, quello “elettronico” con oggetti di vario genere, della maggior parte dei quali le sfuggiva lo scopo, tranne che per il vecchio valvolare Telefunken che era un televisore, il flipper anni settanta d’ambientazione spaziale, ed il jukebox dalle finiture cromate.
Pamela si era girata intorno, aveva incrociato gli occhi di Eduardo, ed aveva spostato il suo sguardo fino a fermarlo nella vetrina a parete, accanto all’ingresso, proprio di fianco a dove era l’uomo che aveva richiuso la porta. Pamela aveva avuto un sussulto che aveva cercato di controllare irrigidendosi leggermente in tutto il corpo. La turbava quell’uomo i cui occhi le ricordarono quelli dell’indiano da cui s’era fatta rapire una notte di parecchi anni prima a Capri.
Occhi neri neri, come il buio pesto quando si fa olio, quello in grado di colare dentro ed espandersi fino a frugare lubrificando ogni anfratto dell’anima quando riverbera sul corpo la trascendenza, per quell’inatteso penetrare. Aveva abbassato lo sguardo sulle scarpe nere di lui, delle clarks scamosciate nere.
Uno o due secondi non di più, e si era ripresa da quell’atteggiamento remissivo ed i suoi occhi avevano preso a salire sui pantaloni neri, sul gilet trapuntato scuro come la terra bruciata, ed aveva indugiato sul collo del lupetto di colore verde militare, prima di tornare a guardare il viso olivastro di Eduardo. Ben rasato, labbra scure ed ombrose.
Pamela era tornata a sfiorare gli occhi dell’uomo con il suo sguardo ed aveva dovuto ripiegare sulla vetrina, dentro la quale c’erano decine di oggetti metallici. Quelli che riconobbe richiamavano la forma di un ferro di cavallo con una lamina sottile in mezzo. “Scacciapensieri” le venne in mente.
“Questi non sono in vendita.” Aveva detto Eduardo, aprendo la vetrina che la donna stava osservando. “Li colleziono soltanto per me.”.
“Scacciapensieri, tutti quanti?” Chiese lei.
“Scacciapensieri tutti quanti.” Rispose lui.
“Strano hobby per un partenopeo, collezionare questi oggetti. E’ di origine siciliana?”
“No. Nulla di più sbagliato, Pamela, se ritiene che questi strumenti siano legati soltanto al folclore siciliano. Gli scacciapensieri sono universali. Guardi questo, questo è nostrano.”
“Campano?”
“Sì, partenopeo. E’ in una lega di argento e rame, del settecento. Quelli sulla mensola in basso sono tutti della tradizione sarda.”
“Sono simili. E questi altri stretti e lunghi, che non hanno la forma del ferro di cavallo?”
“Questi sono asiatici” glieli indicò nell’ordine “Nepalese, afgano, indiano, cinese, thailandese. Hanno forme molto diverse l’uno dall’altro, ma emettono tutti un suono molto simile. Sono strumenti antichissimi diffusi su tutto il pianeta.” aggiunse Eduardo.
“Che sciocca, ed io che pensavo fosse soltanto uno strumento che accompagna le tarantelle, le mazurche. Lei balla Eduardo?” Chiese Pamela, voltandosi verso di lui.
“Dipende.” Rispose l’uomo, il cui volto era a meno di trenta centimetri da quello di lei.
“Poison” pensò, riconoscendo il profumo che lei aveva addosso. Il suo preferito da annusare su una pelle bianca e setosa come quella di Pamela.
“Bene” disse lei “sono pronta per il colloquio.”.
“Il colloquio” ribatté lui, aggiungendo “sì, certo. Ci accomodiamo da questa parte.”.
Indicò due poltrone basse in tessuto damascato beige dai riflessi cipriati, poi l’aiutò a sfilare il trench che appese ad un attaccapanni ricavato da un nodoso legno d’ulivo e ritornò da lei. Le poltrone erano addossate l’una all’altra, dentro quel labirinto zeppo di oggetti. Pamela sedeva su un fianco e non avendo potuto accavallare le gambe aveva ritratto le caviglie, lasciando in avanscoperta le ginocchia con il risultato di ritrovarsi scoperta in buona parte delle cosce. Eduardo distese la schiena lungo la curva della poltrona, allentando anche i muscoli del collo ed era scivolato lentamente, con la testa piegata sulla spalla, fino a quando la nuca non aveva trovato il sostegno della spalliera.
I loro piedi sembravano predestinati al contatto, qualora uno dei due si fosse leggermente mosso. Presero a parlare fitto fitto, con i fiati che sempre si attraevano nella luce soffusa di quell’angolo dove anche le parole presero a perdersi nel tempo e nei ricordi.
Eduardo ascoltava e la lingua di Pamela sembrava sciogliersi sempre di più, fino a quando lei si imbatté nella domanda a cui lui non fu più in grado di rispondere: non l’ascoltava più, già da un po’. I loro sguardi, le loro espressioni parlavano già un’altra lingua oltre le parole. Eduardo trovò la risposta, l’unica possibile, in un gesto. Poggiò le mani sulle guance di lei, la trasse leggermente, e poggiò le labbra sulle labbra di Pamela. L’aria sapeva di buono dentro quella stanza, come le loro lingue dentro le bocche fuse con i fiati minimi d’un respiro che scorreva.
Dopo un tempo persi baciandosi, ripresero ciascuno se stesso dall’altro. Ritrovandosi riflessi nelle pupille che avevano di fronte.
Scivolarono. Si presero e si spersero , si ritrovarono nudi, nell’aria speziata dagli umori dei loro corpi fusi nell’abbraccio.
“Sai di scacciapensieri, tu” disse Eduardo quando la voce ritornò.
“Scacciapensieri” sussurrò Pamela. “Che ora sarà, adesso?” Chiese lei.
“E’ l’ora” rispose Eduardo, indicandole la pendola a muro.
Lei guardò incredula, erano le otto della sera.
“E’ l’ora di chiusura, del negozio.” Considerò Eduardo.
Si rivestirono.
Dal retrobottega accedettero alle scale che conducevano al piano superiore, nell’appartamento di Eduardo. L’aria filtrata dalle pompe di calore, come giù nel negozio, lasciava fuori l’olezzo che invece continuava a galleggiare per le strade.
Bevvero.
Eduardo tagliò due fette di pastiera che entrambi presero a morsi, reggendola con il tovagliolo di carta.
“Ci penserà il Presidente a fare pulire la città?” chiese Pamela.
“Quello è troppo buono, come il Vesuvio fino a quando non si incazza.”
“Dici che farebbe danno ad occuparsi della sua, della nostra, città?”
“Spero che si svegli prima lui e non o Vulcano. Io ci vivo a Napoli. Questa città la sento mia anche se non ci sono nato né cresciuto. Ma gli amministratori fanno schifo quelli che governano e quelli che governano dall’opposizione. A Napoli governano tutti, per questo le cose vanno sempre peggio” considerò Eduardo.
“Già. Speriamo che si sveglino i politici. Spero che tornino a fare gli interessi di tutti.”
“Basterebbe che non facessero soltanto i propri.”
Entrambi poggiarono i tovaglioli sul tavolo. Pamela bevve del latte freddo.
“Cos’è che c’è scritto nel cartello fuori, sotto la scritta -Vendesi-?” lei chiese.
“Nulla” rispose lui “soltanto uno scarabocchio per incuriosire le persone e farle venire in negozio.”.
Tornarono ad abbracciarsi e lei sussurrò “Lo sai che non ci credevo?”
“A cosa?” chiese Eduardo.
“Al marranzano. Che tu suonassi così bene lo scacciapensieri.”
Eduardo la guardò interrogativo.
Lei continuò “Perché per suonarlo bisogna ritrarre la lingua per evitare di tagliarsela, vero?” disse Pamela, umettandosi l’angolo sinistro delle labbra.
“Sì, vero. Quindi?” chiese Eduardo, aggrottando le sopraciglia tradite da un accenno di sorriso.
“Quindi. Quindi, invece, tu la lingua non te la sei risparmiata, prima, su di me.” Rise lei.
“Un altro tipo di scacciapensieri, evidentemente, che la prevede in azione.” Rise anche lui.
Eduardo la strinse a se, lo stesso fece lei.
Entrambi si erano trovati.

 

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