Reset

“Entra”, mi disse, con voce ferma.

Non riuscivo ad alzare lo sguardo oltre le sue ginocchia, avrei dovuto guardarla dritto negli occhi. Avrei dovuto. Lo sapevo, lo sentivo.

La sfrontatezza che per anni era stata la mia arma vincente, nel riempire di enciclopedie a basso costo migliaia di mensole negli appartamenti Catanesi, veniva meno – ora – al cospetto di colei che aveva saputo sfogliare leggendo tra le pagine del mio volto.

Dopo l’ultimo nostro incontro, temevo che da me non avrebbe acquistato neanche un settimanale ancora cellofanato. Invece mi aveva aperto la porta.

C’era ancora un filo a reggere tra noi.

La conoscevo da venti anni da quando era ancora Angela e lavorava al banco del Bar Torrisi di via Etnea. L’incantevole bellezza non era riuscita a farla volare alta nel sogno, conducendola – invece – a rotolarsi nel letto, tra le braccia di uomini che potevano permettersi di pagare i cospicui onorari che lei chiedeva.

Era una seria professionista, lei, e tra i professionisti sceglieva i facoltosi clienti che volentieri richiedevano le sue prestazioni.

Io ero stato il vezzo nei suoi sentimenti, ricambiato in generosità di parole e di sesso. L’avevo ospitata per tre mesi quando era andata via dalla sua famiglia, abbandonando anche il mal pagato lavoro di barista.

Girò su se stessa e, incurante del mio impaccio, si avviò verso il divano. I lunghi capelli biondi, in ciocche ribelli e casuali, poggiavano distratte sulle spalle arrossate. Morbidamente velata, nelle rotondità enfatiche, dal pizzo lucido del baby-doll color cremisi, lo stesso che le avevo visto già addosso la settimana prima. Ancheggiava leggera facendo respirare, sulla schiena, lo spacco del velo ricamato. Una ipotesi di perizoma, sopra le natiche sode di esercizio.

Venti anni fa mi ero illuso di poterla trattenere a me, mi accorsi di non avere sufficiente rete per arginare la determinazione che aveva a voler far da sé: a voler essere da sola. In casa mia aveva maturato l’idea e aveva riscritto con inchiostro possibile la nuova ipotesi per il futuro. Scelse il rotolamento terreno che la vita le offriva e riuscì centrare un’esistenza agiata e serena.

Affittò un appartamento ed iniziò ad accettare le visite a pagamento dei molti che già dai tempi del bar avevano manifestato una passione per cancellare le distanze frapposte dal bancone.

Il suo nome diventò Angelic, cambiò pelle e nel tempo selezionò gli uomini, trattenendo soltanto quelli per i quali non era una puttana. Ma, una buona amante in ombra e condivisione.

Angelic non era felice. Appagata e serena, sì.

Io non le fui cliente, né tanto meno amante. Piuttosto il suo amico, innamorato e silenzioso fino a che le cose non sono precipitate nel nostro ultimo incontro.

Sapevo, già da prima che l’idea si facesse verbo, che lei avrebbe schivato la mia proposta di un “reset” comune alle nostre vite: la mia in fallimento; la sua serena, anche senza l’amore. Il fatturato della mia ditta era crollato a picco verticale, per via della distribuzione delle enciclopedie attraverso le edicole ed io non riuscivo a spiantare con il nuovo prodotto da vendere. Notti insonni, alle mie spalle. Giornate al volante per le strade della Sicilia, per portare a spasso il campionario Helvenzia, fatto di inutili prodotti per parrucchiera. Inutili, almeno per me che non riuscivo a collocarli sul mercato. Sarebbe durato poco il contratto a termine con la multinazionale.

Conoscevo i suoi argomenti. A nulla sarebbe servito percorrere la parete rocciosa di una maternità o farle sognare l’improbabile felicità, ché di anni sopra le spalle oramai ne abbiamo sia lei che io.

Alla nostra età il sogno è un inganno in maschera sgualcita di cui si intravede il sottostante teschio.

Mi voleva bene ma non mi avrebbe accettato come compagno di vita.

Nell’assurdo feci l’ultimo passo: “con me! o poterai per sempre il solo ramo solido che possiedi: sparirò.”.

L’idea si era fatta verbo ed il verbo era stato cesoia.

Buio. Chilometri. Sigarette. Dolore. Telefono. Vuoto. Telefono. Malessere. Pianto. Telefono. Non è più e non potrà più essere come è stato. In due. Silenzio. Respiro.

La stanza era illuminata dalla luce azzurrognola soffusa e sembrava un incantevole tappeto tridimensionale dove svettavano – ed era una novità – decine di candele in fiamma viva, a mendicar l’attenzione. Chiusi la porta alle mie spalle. Sfilai la giacca e appendendola fuggii dallo sguardo che mi stava lanciato, lasciandosi cadere sul divano. Deposi le chiavi dell’auto sulla mensola, vicino al telefono.

L’immagine restituitami dallo specchio era ingenerosa: gli occhi sgranati sottolineati dalle pesanti occhiaie contribuivano alla devastazione del mio aspetto.

Ero teso.

“Siedi qui, accanto a me”, disse.

Lo feci. La guardai negli occhi: avrei dovuto farlo prima.

L’assurdo fu sogno ed il “Reset” fu.

Ci baciammo in un tempo già futuro.

 

Tutti i diritti sul presente racconto sono riservati dall’Autore :  © Saro Fronte

2 Comments

  1. lisergico, Stordisce per bellezza Dalek, Abandoned Language, c’è sole, cosa da mare, certo, ma ho chiuso le finestre, mi sono rifugiato nella mia tana, Isolated, l’omino gravido pare difendermi dagli attacchi, pare tirar fuori bombe a mano, pare indicarmi dove andarmi a buttare e dall’alto ho visto due piccioni, sotto, un balconcino vedevo e pensavo che con un bel salto si potrebbe evitarne l’impatto, l’animale morente, é di Phil Roth, ma potrebbe essere benissimo quel titolo che dovevo trovare ieri e ancora non l’ho fatto anche se, a dire il vero, proprio ieri notte avevo pensato al titolo possibile, insomma vedevo sotto un balcone rosso, pronto ad accogliere quelli più sprovveduti al salto, ma, ripeto, con un buon salto si potrebbe evitare vedevo i due piccioni ed entrambi mi guardavano, curiosi. C’è una stanza illuminata di turchese, una sedia-trono, fogli pencolanti dal soffitto, nelle pareti, tutto rigorosamente dipinto d’una luce turchese, magnifico, una delle immagini più belle che ho visto da tanto tempo a questa parte: lì dentro vorrei rifugiarmi, lì dentro potrei governare meglio la mia follia, lì dentro potrei navigare nudo quel colore. C’è una foto che mi scatta dentro e con identico colore, nudo e crudo -come Dalek -, avvolto d’aura. Adesso dovrei sostenermi insieme tutti i miei nervi, contenerli con le mie piccole mani i miei piedi perfetti le mie grecchie altrettanto perfette, e altro ma non vorrei essere volgare. C’è sole fuori, furioso d’afa, che al mare pare lontano, il mare impossibile da stare, quale mare, poi? Ci sarà mare d’estate? Avrò il coraggio di esporre le mie parti tenere al sole d’estate? Che estate sarà, quest’anno? Come saranno le prossime, al sole? Come brucerà il sole nei prossimi duemila anni e, soprattutto, finiranno questi millenni? Non abbiamo scampo. A volte mi sembrano insopportabili i giorni, a volte anche i minuti, i secondi si fanno insostenibili. Andrò, di là, chiuderò la mia nudità come finisce il supplizio di un santo martire, è che il trapasso mi schianterà su una piccola tela, una metamorfosi.
    Ah, il titolo: Coccodrillo!
    T’abbrazzu di cori, Francesco.

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