I Vecchi


No, non sono tutti uguali i vecchi,come pensano loro: uguali e inutili, ormai prossimi alla fine.

Ognuno di loro è un frutto, un frutto in inverno: e da come si manifesta si può provare a rievocarne la trascorsa primavera, e confrontare il sapore fresco e ancora acerbo di allora con quello più stagionato e deciso, di ora.

Hanno tutti paura della morte, i vecchi, e tremano sempre, perché pensano che di loro non resterà nulla – nulla dei sogni e delle speranza, nulla delle illusioni e delusioni che per tutta la vita li hanno accompagnati fedelmente. Bisogna comprenderli, allora, comprendere che non desiderano altro che di essere accolti e contenuti, e che temono più di ogni cosa proprio questo inopportuno desiderio – essi sentono già, forte e intenso, il richiamo della terra, ma non vogliono scomparire nel suo abbraccio soffice, non ancora.

Bisogna allora avvolgerli in un abbraccio totale, un abbraccio che contiene e lascia liberi, proprio come quello della terra; e poi, si dev’essere terra, terra morbida e dolce accanto e tutt’intorno a loro, perché sentano che in quell’abbraccio che li attende non scompariranno, ma si trasformeranno soltanto.

Bisogna assaggiarli come si fa con la frutta secca, con la piena consapevolezza di tutta la ricchezza che possono offrire; e poi gustarli fino in fondo, perché in ogni modo, qualunque sia stata la loro giovinezza, essi sono sapienti, cioè hanno un sapore unico e delicato, un sapore speciale che rinvigorisce le membra e fortifica il cuore e la mente.

Essi non sanno nulla di questo, e così tendono a chiudersi completamente in se stessi, facendosi tutti piccini, secchi e induriti, legnosi: come i vecchi-mandorla, racchiusi in un guscio spesso durissimo che scoraggia. Non bisogna desistere, allora, ma al contrario insistere finché quel guscio si spezza, e dentro, avvolta in una sottile guaina anch’essamarrone e secca, non compare una piccola mandorla allungata, bianca e tenera come quando era giovane, ma più dolce o più amara – secondo il tipo – perché più concentrata. Una mandorla che spesso si appiattisce contro un’altra in tutto uguale a lei, tanto che sembrano due metà riunite: ed è quello il momento in cui si scopre il motivo per cui questi vecchi si tengono sovente così lontani e in disparte nel loro durissimo guscio. Essi conservano un segreto tenero tenero nel profondo del cuore, e lo rivelano solo a chi dimostra di comprenderlo.

Temono sempre di perdere un pezzo essenziale di se stessi, e per questo appaiono avari e spesso anche pieni di amarezza; eppure è proprio con loro, con questi vecchi-mandorla, che si possono preparare i dolci più squisiti. Basta solo donar loro, con molta pazienza, un po’ di zucchero o di miele, e sbriciolarne amorevolmente la resistenza atavica fino a farne una morbida pasta. Anche da giovani, del resto, resistevano, avvolti in un guscio verde che allegava i denti: ma che freschezza liberavano se invece lo si sapeva evitare!

Anche i vecchi-noce sono ben chiusi in se stessi e induriti, ma il loro guscio non si spezza come quello dei vecchi-mandorla. Spesso si spacca perfettamente a metà, specialmente quando a tavola ci sono bambini. I vecchi-noce, infatti, amano giocare: essi sanno che ai bambini piace costruire delle rudimentali barchette con il loro guscio che galleggia sull’acqua – basta solo una pallina di argilla per sostenere uno stecchino a mo’ di albero e nascono meravigliose avventure.

I vecchi-noce sono dei nonni magnifici, che custodiscono dentro di loro tantissime storie da raccontare davanti al camino: per questo hanno proprio la forma di un cervello umano – ne conoscono talmente tante! Essi sanno come nutrire gli altri, perché sono buoni, forti e ricchi, e nelle fredde giornate invernali riescono a ritemprare chiunque.

E che dire dei vecchi-castagna, paludati in un riccio spinoso che impaurisce come la barba di un orco, e che invece poi, dentro, sono morbidi morbidi e farinosi, quei vecchi in realtà inermi e indifesi e persino timorosi da cui è nato il detto, appunto, “prendere in castagna”?

Quelli sono cari e sempre presenti, e scaldano il cuore come le caldarroste le mani.

Non tutti i vecchi, però, si chiudono e s’induriscono: ci sono quelli, al contrario, che col tempo si ammorbidiscono e addolciscono oltre ogni dire: come i vecchi-dattero, che in gioventù si vestivano di un bell’arancio e vivevano a grappoli, e da lontano sembravano indossare la tunica color zafferano dei monaci buddisti.

I vecchi-dattero si concentrano rigorosamente intorno al loro nucleo centrale e si avvolgono di sole finché, improvvisamente, non realizzano che il sole che li riscalda e il seme che hanno nel cuore sono proprio la stessa cosa. Allora la dolcezza li assale, dall’interno e dall’esterno insieme, ed è così grande e irresistibile che loro, pian piano, svaniscono, e rimane soltanto lei – lei tutt’attorno al Seme-Sole.

I vecchi-dattero sono fatti di dolcezza e compassione, e si offrono in sacrificio e nutrono gli altri.

Chiunque li incontri li riconosce subito, anche a distanza, perché sembra che esistano solo per far dono di sé.

Ci sono anche i vecchi-fico, che in gioventù erano freschissimi e splendenti e sodi, pieni di dolcezza anch’essi, e man mano che passa il tempo diventano sempre più dolci e trasudano miele e ricordi. Anche loro si cuociono al sole senza riserve, e la sensualità piena che irradiavano in gioventù si trasforma in un’offerta mistica e assoluta. Non per niente con i vecchi-fico si farciscono i dolci di Natale.

No, non sono tutti uguali i vecchi; ma se, incontrandoli in inverno, si possono leggere nelle loro rughe le gioie e le amarezze delle primavere e delle estati trascorse, anche il contrario si può fare.

Ognuno mostra già nella propria primavera, appena appena abbozzati, i segni dell’inverno che vivrà; e sempre più chiari si fanno quei segni attraverso le stagioni della vita – prima la maturità dell’estate, e poi il declino dell’autunno, finché l’inverno, con il suo rigore, non li conferma e palesa.

E’ bello, allora, accogliere i vecchi nel cuore con la dolcezza e l’amore che meritano, e farsi terra per loro e scioglierli nel proprio sangue, ereditarli e poi trasfonderli completamente nel sangue del cosmo; è bello non solo per loro, ma perché così si impara a capire per tempo che tipo di frutto anche noi siamo, e quale potrà essere un giorno il nostro modo di donarci alla terra.

   Così, non serve cercare lontano, poiché ovunque, persino in un semplice dattero, è già scritto tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

 

Daniela Thomas, da “Segni di Vita”, ed. La Zisa, Palermo 2009.