Ti Ricordi?

Il racconto “TI RICORDI?”, è “quello” che io considero il primo racconto compiuto, da me scritto. La prima stesura, di esso, risale al 1993, ed è stato pubblicato come inserto alla periodico L’IMMAGINARIO di Ispica durante la Settimana Santa del 2003.

Il racconto è nato ad Ispica durante la Settimana Santa del 1993 ed è stato uno scritto rimasto in un cassetto a casa dei miei genitori, per dieci anni. Probabilmente ci sarebbe potuto rimanere per sempre, visto che ritenendolo strettamente personale, avevo tralasciato di trasferirlo sul mio Personal Computer.

I fogli dattiloscritti che lo componevano mi sono balzati tra le mani nel marzo di questo 2003 e rileggendolo mi sono detto che a trentacinque anni d’età, sarebbe stato sciocco continuare a tenerlo nel cassetto, perché tale comportamento mi avrebbe tenuto legato ai “pregiudizi” che allora me lo facevano ritenere strettamente personale.

In fondo “crescere”, credo voglia dire, accettare lo strano gioco della vita, dove ognuno percorre il proprio sentiero.

Tutti gli incroci e le vie, sia che convergano o divergano, ci nutrono nella possibilità di una visione più ricca dell’Esistere.

Ritengo che le sensazioni e le esperienze dell’umanità siano destinate a doni importanti: quello dell’incontrarsi, dello scambiarsi, del comprendersi.

Per questo motivo, donarvi questo racconto (incrocio di più tappe della mia esistenza) è il miglior auspicio che possa fare alla comunità ispicese, che considero unica ed insostituibile e che dovrebbe imparare ad operare guardando all’importanza di costruire un futuro ove tutti quanti possano vivere degnamente.

Un dono semplice senza pregiudizio.

(APPUNTI 1993)

“ …Il tempo srotolatosi ticchettante, che allunga l’ombra alle nostre spalle, è tanto o poco non soltanto in funzione dei giorni, dei mesi, degli anni, che ci separano dal nostro primo respiro, ma anche in funzione di quanto e di come è stato vissuto l’arco temporale creatosi, e da quali ricordi ed esperienze riconosciamo come fari per illuminare il cammino che – poco o molto – abbiamo da percorrere.

Ci sono alcuni ricordi che rimangono impacchettati, celati, in qualche angolo remoto della memoria, con la polvere del tempo che sedimenta su di essi, mimetizzandoli con il nulla. Ma, quando, per uno strano motivo queste scatole della memoria principiano a schiudersi, il nulla svanisce ed appaiono i raggianti colori della vita, solari, come quelli che decorano le scatole cinesi, e dentro di noi si schiudono altre scatole e poi ancora altre.

Accade così, che i ricordi scordati, tornano straordinariamente limpidi, come fossero accaduti il giorno precedente…”

RACCONTOTI RICORDI?

Alla fine degli anni settanta

Tua madre era convinta che la tua esilità fosse una vergogna, per questo ti faceva rimpinzare di punture che i dottori definivano rinforzanti. Ti portava dai vari luminari che approdavano in paese, nell’illusione di vederti ingrassare come un vitellino d’allevamento. Tuo padre sosteneva che la fame ti sarebbe venuta da sola, ma pur di vedere la moglie tranquillizzata l’autorizzava a farti visitare dai vari dottori.

Alle visite mediche ti eri abituato, di solito ti buttavano sul lettino, ti sentivano il polso, ti tastavano la pancia, ti giravano, ti chiedevano di tossire, ti facevano ripetere il verso del trentatré, ti rigiravano, ti scrutavano gli occhi, guardavano la lingua, e con aria perplessa tornavano a sedere dietro la scrivania. Scrivevano interminabili liste di schifezze farmaceutiche che, nella migliore delle ipotesi, tu dovevi ingoiare. Tua madre pagava e strattonandoti per il braccio ti portava via.

Era la mattina del Giovedì Santo, tuo padre ti aveva portato con se affinché tu l’aiutassi ad aprire le serre. Dovevate sbrigarvi, per arrivare in tempo in chiesa e vedere la Scinnuta del Cristo alla Colonna. Per l’occasione stavate andando in campagna con la macchina nuova, la “Renault 6”. Motivo d’orgoglio era stato per te, in quei giorni, l’acquisto da parte di tuo padre di quell’autovettura nuova al posto della malridotta “Fiat Seicento”, che ormai nonostante i rattoppi miracolosi che Mastu Santo aveva eseguito su di essa, meritava il riposo eterno.

Nell’aria c’era una forte umidità, residua della pioggia caduta durante la notte. Il cielo era coperto di nuvole, con uno strappo ad oriente, dal quale qualche raggio di sole, intenso, filtrava: illuminando a strisce l’ampia zona dei colli della campagna. Tu nutrivi la speranza che anche il cielo in quel giorno di celebrazione si vestisse d’azzurro: che si permeasse di sereno, onde diffondere in tutti la gioia della ricorrenza festiva.

Fatta la curva dell’abbeveratoio, che immette nella via d’uscita del paese, dove la strada pende nella scorrevole discesa della Calata o Tagghiu notasti che tuo padre non aveva ancora spento il motore della macchina. Di solito quel tratto di strada era percorso dai più ed anche da tuo padre, nel modo più economico, a motore spento, per risparmiare. Erano gli anni in cui il prezzo dei carburanti aumentava con cadenza settimanale, erano gli anni della crisi petrolifera e lo Stato imponeva il salasso agli automobilisti e per disintossicarsi dalla dipendenza dal petrolio, almeno così dicevano le teste grosse, imponeva agli italiani di utilizzare la propria autovettura a giorni alterni, secondo che il numero di targa fosse un numero pari o un numero dispari. Erano i tempi in cui i sacrifici di chi irrigava la terra con il proprio sudore erano davvero enormi: come sempre.

Subito dopo la curva comprendesti il motivo per il quale tuo padre non aveva spento la macchina, allineate sul lato destro della strada, procedevano in fila indiana decine di donne, al passo lento. Camminavano silenziose, guardando per terra.

Immaginasti che avessero a che fare con la festa del Giovedì Santo. Chiedesti a tuo padre, chi erano. Sbrigativamente, ti disse che erano devoti del Cristo alla Colonna che, dai paesi vicini e dalle campagne, si stavano recando nella chiesa di Santa Maria, per ringraziare il Signore di aver loro concesso “la Grazia”.

Le risposte di tuo padre sono sempre state brevi e tu non l’hai mai torturato con domande inutili. Cercavi di trovare da solo quelle risposte che avrebbe potuto darti. Allora ti convincesti che le forestiere, stessero pregando.

Alcune donne avevano in mano dei fasci di carciofi, altre reggevano delle originali composizioni d’orto-frutta, prodotte con quanto la terra dona nel periodo primaverile. Altre, reggevano dei ceri, candele e curiose riproduzioni di parti anatomiche del corpo umano: teste, gambe, braccia. Ti balzarono agli occhi le donne che avevano in mano dei ceri di Bambin Gesù, che parevano dei bambinelli veri. Un Bambin Gesù simile, lo avevi visto a casa tua. Tua madre lo aveva accudito. Per tentarle tutte, lei, si era rivolta al Cristo flagellato, affinché ti trasformasse in un fanciullo robusto. Al bambinello in cera aveva confezionato una bella sottana di raso rosso e merletti bianchi, l’aveva cucita con la stessa minuziosa cura che era solita porre quando confezionava i tuoi vestiti. Ti voleva sempre lavato e stirato, quindi anche il bambinello chiamato a fare da tramite per ottenere la grazia del tuo ingrasso doveva avere un vestitino ben figurante.

La giornata era rimasta carica di nuvole. Il cielo aveva tenuto ed in chiesa, tuo padre, ti aveva preso in braccio per riuscire a farti vedere la Scinnuta. Era la Scinnuta del Cristo alla Colonna, il Cristo dei Cavari e tuo padre Nunziatario di quelli che a Cristo ci aveva scippato pure i chiodi per scenderlo dalla Croce, ci entrava per te nella chiesa di Santa Maria, perché da maritato lui e tua madre erano andati a vivere nel quartiere nuovo che era stato costruito nella zona ricadente sotto la parrocchia di Santa Maria. Tuo padre era cosciente che tu in quel quartiere stavi crescendo. Nel Santuario dei Cavari, era scritto, che avresti ricevuto la tua prima comunione, sotto la protezione di Colonna avresti fatto la cresima e probabilmente, sotto il suo sguardo ti saresti sposato.

Tuo padre non è mai stato un ottuso fondamentalista Nunziatario, così come da allora ti ha insegnato a non essere un estremista Cavaro.

Ci fu un medico che veniva da Catania, la domenica. Si diceva che sapesse fare bene il suo lavoro, specie con i ragazzini che si rifiutavano d’ingrassare. Il medico di Catania fu la nuova speranza di tua madre e per l’ennesima volta tuo padre cedette alle insistenze e ti fecero visitare.

Il dottore di Catania, in effetti, ti sembrò da subito diverso dagli altri medici, era alto, il suo studio era ricavato tra i divani di una bella stanza. Egli non indossava il camice bianco, ma un bel vestito blu, con tanto di gilet e cravatta. Il dottore non stette a sentire quello che aveva da riferire tua madre, tu conoscevi a memoria la sua eventuale litania ed evidentemente anche il medico la conosceva già. In fondo, doveva essere la tiritera di tutte le madri che avrebbero voluto veder diventare i propri figli simili a quelli che propagandavano al Carosello.

A sorpresa, il dottore, ti rivolse questa domanda: “Quanti furono i Sette Re di Roma?”.

Rimanesti in silenzio, convinto che il dottore di Catania fosse ancor più scemo degli altri medici che avevi già incontrato: se sapeva già che i Re di Roma furono Sette, che senso aveva chiedertelo?

Non rispondesti. Rimanesti offeso per l’intera durata della visita che fu più lunga del solito. Anche la parcella che tua madre pagò fu più salata del solito. Alcune delle schifezze farmaceutiche che il luminare catanese ti prescrisse, fecero incavolare tuo padre, quando il vostro medico di famiglia lo informò che la Mutua non passava gratuitamente quelle medicine e quindi doveva acquistarle a prezzo pieno.

Ispica, settimana di Pasqua 1993

Giovedì.

Sei tornato ad assistere alla Scinnuta. Sono irrequieti i Fedeli dentro la chiesa, manca poco all’evento. Sono giunti al traguardo, dopo il lunghissimo anno nell’attesa che Colonna fosse restituito alle loro mani, pazientano a stento, espansi in ogni poro della pelle, stuzzicati dall’interminabile predica del prete.

Ti accorgi delle leggere gomitate, date in punta di piedi, per riuscire a scorgere al meglio l’evento. Energiche le invocazioni al Cristo, gridate dall’ala dei Confratelli e Portatori del Cristo flagellato alla Colonna, le urla diventano eco sulle labbra degli altri fedeli. Al grido di “Viva lù Patri! ” crolla la cortina che occlude la vista del Simulacro e la Sacra effigie del Cristo legato alla Colonna appare prorompente.

E’ un’intensa suggestione. Collettiva. E’ la vera eucaristia della tua gente. E’ una speciale consustanzialità del simulacro: il Cristo lungamente invocato, appare, creando il “sussulto” collettivo che è segnale della Sua vera presenza tra la gente.

Nella processione pomeridiana, la Statua del Cristo è condotta per le vie del paese. Ai lati degli stendardi che annunciano la processione, ci sono i ragazzini che indossano la felpa bianca ed il fazzoletto rosso, annodato al collo. Ricordi quando avevi la loro età, come i ragazzi non accompagnati alla festa dai grandi, fossero spremuti, – come foruncoli – e come pus, espulsi verso il margine della processione? L’alternativa era andare via, al mitico Bar Trinacria, erano giorni di festa e le monete per un arancino e per giocare a biliardino e flipper , non mancavano.

I ragazzi oggi portano in mano i ceri accesi. Ti fa piacere che partecipino alla processione. Sono felici, festanti, conferiscono alla rappresentazione uno straordinario senso di vitalità. Giocano tra di loro, in barba alle signorine che vorrebbero tenerli in riga. Un signore con il Borsalino in testa, proprio davanti a te, si lamenta del contrasto tra il comportamento festante dei ragazzini e la passione rappresentata nel simulacro. Sei tentato di chiedere, a quel signore, se preferirebbe vedere in processione dei bambini flagellanti. Rinunci a porre il quesito, come spesso ti accade, prevedi che egli si sarebbe lamentato anche della tua impertinenza e tu non vuoi che egli aggiunga altri malanni al proprio fegato già evidentemente martoriato dalla sua psiche.

Ammiri gli stendardi, le lunghe aste arcuate che permettono di svettare al drappo cui sopra è ricamato l’emblema della parrocchia che rappresenta. Gli stendardi, sobriamente belli, quando sei scosso dai tuoi pensieri per quel che senti: “Questa non è una passeggiata. Chi sa pregare … Lo facesse! Chi non sa pregare … impari! Chi non è credente … non disturbi!”.

Un’anomala forma cubica ricoperta di raso rosso e mossa a spinta da due portatori, non sai cosa sia, non capisci, poi ti accorgi dei due altoparlanti a tromba, poggiati sopra. Da li è stato vibrato il monito che ti ha destato. Lo vedi è il regista che ha sostituito il Rosario con il microfono.

La festa diventa via più uno spettacolo dove i simboli, nati nella lunga notte del millennio che volge al termine, sono inglobati alle improbabili scenografie, dove tutto viene fatto ingoiare, proprio come accade nei programmi televisivi della domenica.

Sali sopra a dei gradini di fortuna, i balconi delle case sono i palchi ambiti per assistere alla processione, non i gradini occasionali, lì sopra ti guardano storto, ma tu te ne freghi vuoi guardare dall’alto l’insieme della rappresentazione.

Passerella di scarpe nuove, vestiti nuovi, look rifatti.

Dove finisce il folclore? dove inizia la parodia? dove rimane celato il mistero di Cristo fattosi uomo?

Una marea multicolore di persone, effetto onde delle teste, il Cristo sembra navigare sereno.

“Eppicciuotti … COLONNA!” una voce ed il coro.

Giovedi Santo, Cristo è stato condannato alla Crocifissione ed il popolo che lo aveva acclamato nella Domenica delle Palme ora lo accompagna sul Monte Calvario. Quanti sono i “Pilati” che se ne lavano le mani? Quanti i traditori che incassano i trenta danari? Quanti sono quelli che aspettano, ogni giorno all’oscuro, che si compia il copione scritto duemila anni fa?

Passi dal Pub bevi una birra, poi un’altra, poi torni a casa metti su una cassetta jazz, mangi un boccone, assaggi un po’ di vino e t’infili sotto alle coperte.

Venerdì.

Hai imparato a considerare il Cristo alla Croce come l’altra faccia della stessa medaglia del Cristo alla Colonna.

La Crocifissione sponsorizzata dai notabili, quando l’autovettura era simbolo d’appartenenza alla classe borghese, ne donarono una al Cristo alla Croce, una vecchia “fiat millecento” comprata a Pozzallo, credo. Modificata per il trasporto speciale del fruitore, dagli artigiani falegnami ed incorniciata nel luccichio d’oro, dal Mastro Di Martino.

Defaticare la processione. I portatori del Cristo alla Croce, nelle loro case avevano il televisore, la lavatrice, il frigorifero. Quindi, per loro, non era più tempo di fare la festa in Cristo, ma era il momento di guardarla, la festa, mentre la facevano al Cristo. Il benessere comportava la riduzione della fatica fisica e visto che in fondo la zappa era ancora pesante, la festa poteva essere leggera. Cavalli e cavalieri, nelle vesti della Cavalleria dei Romani, gli stendardi, il Cristo sulla vettura, la banda e il corteo, la fiaccolata alla fine della processione. Questo ti aspettavi di trovare, invece all’uscita della processione, hai una sorpresa: piacevole. Scopri che il Cristo alla Croce non ha voluto più la macchina ed è sceso per viaggiare sulle spalle dai portatori. Giovani portatori, stanno ripristinando la tradizione rovinata dal fottuto mito del benessere. Ti proponi di assistere a tutta la processione e lo fai, da dietro al mirino della tua fotocamera reflex.

Ceni, dormi sereno.

Sabato.

Vaghi alla Cava tutto il giorno: passeggiata solitaria con una speranza in più, per il futuro.

Ceni.

Dormiveglia. I volti, le donne scalze, i giochi, l’infanzia, i morti trasmessi dal telegiornale, la festa, il Cristo. Correvi con gli altri ragazzi della cricca, tra le rocce ormai cancellate dal quartiere 167. Salivate sugli alberi ed urlavate come Tartan: felici. Battendovi con il meglio che la fantasia vi forniva, vi trasformavate in razzi e missili, “con circuiti di mille valvole”. Non appena vi accorgevate che stava per arrivare il guardiano lanciavate sassi a destra e manca, e vi davate alla fuga precipitosa tra le sterpaglie e i muri a secco. Il guardiano era una legenda che, per salvare la frutta degli alberi dal barbaro scempio delle vostre incursioni, rispondeva al fuoco dei vostri sassi, con i suoi lanci “a testata intelligente”: le sue pietre filavano dritte e vi mancavano di quel poco che egli decideva di mancarvi. L’estenuante corsa in direzione delle timpe a ridosso della Scala o Puorcu, l’incontro della banda dei ragazzi di quel quartiere. Fra bande era sassaiola immediata. Ma loro quella volta erano impegnati in un “esperimento superiore” e voi vi avvicinaste indisturbati. Incuriositi. Avevano catturato decine di lucertole e le avevano infilzate tra gli aghi della pianta detta “Spinasanta”. Gli animaletti feriti si dimenavano ruotando le zampe nel vuoto, alla ricerca di un solido appoggio, dove poter fare leva e scappare. Lenta l’agonia che conduceva le lucertole alla morte. Non riuscivi a trovare gioia in quel gioco. Ti ricordi?

Le lucertole non si agitavano più, forse erano morte. I tuoi amici appiccarono il fuoco a “quell’esperimento superiore”.

Cristo era morto sulla Croce. Tradito, inchiodato ed infilzato.

Gli eretici e le streghe sono morti, nelle tenebre dei secoli, ardendo dentro ai roghi dei “Savi”.

I bambini, oggi, sotto le esplosioni di Sarajevo sono diventati cenere.

Non hai più tirato sassi alle lucertole, ma “l’esperimento superiore”, camuffato, continua a ripetersi ogni giorno. Impari a riconoscerlo?

Domenica.

E’ Pasqua. Cristo risorgerà, tra poco, liberando dal senso di colpa il cuore dei traditori.

Il sole è intenso.

Sotto a questo sole l’indifferenza regna Sovrana, in un equilibrio esistenziale che nutre e si nutre dell’energia del torbido, del pettegolezzo sussurrato, dentro la cornice della nostra società matriarcale che tramanda il mestiere del “tagliare e cucire” delle parole ed il “ricamare” con il filo del si dice.

Crocifissioni d’innocenti eseguite.

E’ la vita di un popolo che ha paura ad ergersi dinanzi alla necessità del sommo bene comune.

Trincee di labili certezze contornano la gente che nell’oblio dimentica persino che pisciare può dare piacere.

Saluti. Abbracci. Baci. Auguri. Volo di colombe. E’ U n’cuontru ad Ispica, come è A Pace a Comiso, la Maronna Vasa Vasa a Modica, U Joia a Scicli, con intorno alle colombe, liberate “alla mezza”, tanti fuochi che esplodono.

Applausi ed auguri. Auguri.

© Saro Fronte

Anno 2003 – Il Racconto fu pubblicato dal periodico ispicese L’IMMAGINARIO nel giorno di Pasqua.

Oggi, 10 marzo 2020 Dedico questo racconto ad Angelo e Giovanna, miei splendidi Genitori (Ai nostri occhi che hanno saputo sempre parlarsi.).

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