Carmela

 

Era il 2 novembre 1865. Il cielo era cupo e nell’aria c’era qualcosa di teso e minaccioso, ma lei non ci aveva badato, distratta dal giallo vivace dei fiori di zucca che aveva sistemato in un vaso in cucina per mangiarseli con gli occhi, prima di farli a pastella.

Tutti i fiori maschi aveva raccolto, quel giorno, ma prima aveva impollinato le femmine, ché quest’anno di zucche non ce n’era nemmeno una. Gliel’aveva detto Donna Margherita: non erano nate zucche perché non c’erano api, Don Titta le aveva intossicate tutte col fumo e in parte le aveva bruciate, ché quelle avevano scambiato la sua terrazza per casa propria e lui non le poteva vedere, perciò: api niente, e come potevano nascere allora le zucche? Lei la doveva fare, l’ape. Prima di raccogliere i fiori maschi, con un dito doveva sfiorar loro il pistillo, e poi passarlo dentro le coppe delle femmine, delicatamente: così le avrebbe rese feconde.

Perciò all’alba Carmela era andata nell’orto e aveva trovato tutti i fiori dischiusi e umidi di rugiada, e un po’ vergognata aveva fatto l’ape, e se qualcuno l’avesse guardata, se ne sarebbe accorto che era arrossita, ma non c’era nessuno, e poi in fondo lei aveva un bel colorito bruno, che il rosso lo tratteneva sotto la pelle, bollente.

Nel grigio di piombo, pareva che gridassero, quei fiori, per quant’erano gialli. Sudata, col suo mazzo di fiori, Carmela aveva sentito un brivido gelato, rientrando in casa. Era giovedì: a mezzogiorno Lui sarebbe venuto, con la scusa di parlare dell’olio con suo padre; e invece gliel’avrebbe detto all’impensata il vero motivo. Lui la voleva sposare, Carmelina, e pure lei voleva sposare lui. Aveva uno sguardo di fuoco, Antonino, gli occhi nerissimi, i capelli ricciuti un po’ lunghi sulla fronte, e non rideva mai, ma quegli occhi, com’erano…, e le belle mani…, il collo…, e poi, parlava poco. Pure per questo le piaceva: parlava pochissimo, e aveva una voce dura che certe volte diventava dolce all’improvviso: come quando lei attraversava la stanza apposta, leggera leggera, mentre lui parlava con suo padre dell’olio o delle mandorle, e a lei in bocca veniva il sapore della pasta di mandorla, per quanto dolce gli si faceva la voce seguendola con gli occhi…

Ancora era presto, Carmelina aveva tutto il tempo per aggiustarsi bene i capelli ribelli e indossare una certa collana con un pendente di smeraldo che la faceva risplendere tutta. Le dita se le lasciò gialle di polline, ché magari avrebbe potuto sfiorarle quelle labbra di Antonino che parevano un fiore: un attimo appena e avrebbe fatto l’ape e lui manco se ne sarebbe accorto.

Intanto però il cielo s’era fatto ancora più scuro, e l’aria tremava. C’era un vento caldo di scirocco che la faceva sudare quasi quanto l’agitazione, e questo vento aveva preso il posto del tempo, quel tempo che non passava mai, perché l’unica cosa che si muoveva era il vento, che soffiava sempre più forte e pareva volesse sradicare gli alberi, di quant’era sfrontato. Carmelina temeva che questo vento volesse impedire ad Antonino di arrivare, perché ululava tutt’intorno alla casa, pareva un cane da guardia, ma no uno, dieci, cento cani parevano. Il sudore dell’ansia e dello scirocco le scorreva gelato come un presentimento, ma cos’era non lo sapeva, qualcosa che le prendeva le viscere, una stretta violenta che le toglieva il fiato, come un senso di morte.

Si affacciò alla finestra e subito la richiuse, il vento era troppo forte. Antonino ancora non si vedeva, ma lontano, dal mare, Carmela vide avanzare vorticosamente verso di lei una immane tromba d’aria. La nonna gliene aveva parlato: si chiamava DDraunara perché aveva la coda di drago ma era femmina – come me, si trovò a pensare Carmelina, e chiuse le persiane e rimase al buio a sentire gli ululati del vento.

Dov’era Antonino? La DDraunara se lo poteva portare via, forse già lo aveva preso: no. Non poteva essere, lei lo voleva Antonino, suo doveva essere, suo e basta. L’avrebbe affrontata, la DDraunara, era forte lei.

Pallida e scarmigliata, Carmela scese dalla scala di servizio. Gli altri erano fuori, tutti insieme, a gridare, piangere, pregare, perché credevano che la DDraunara volesse inghiottire Spatafacio, ma Carmelina lo sapeva che non era così, che era venuta per lei e stava correndo per arrivare prima di Antonino. Una volta tanto, si ritrovò a pensare, anche i suoi erano come gli altri: uomini e donne e basta. Nessuno poteva essere nobile o potente di fronte alla DDraunara. Tutti uguali erano, tranne lei, la più giovane, che in quel momento era la Grande, e nessuno lo sapeva.

Scese, Carmelina, e andò in giardino, e poi più avanti, scalza, fino alla spiaggia, agli scogli. Il vento le turbinava intorno strappandole le vesti, scompigliandole i capelli, facendola illividire dal terrore. Solo il pendente di smeraldo rimaneva là, splendido, sussultandole sul cuore impazzito. In piedi sugli scogli, Carmela aspettava.

Anche la DDraunara aspettava, e proprio lei. Carmela non osava guardarla, sforzandosi di rimanere ritta sugli scogli con le gambe malferme. Sentiva quella presenza incomberle addosso, possente, e dovette piegarsi su se stessa e farsi forza abbracciandosi le ginocchia. Tremava tutta, Carmela, in quel vento caldissimo, ma infine riuscì a rivolgerle gli occhi: e vide come un immenso fiore vorticante su se stesso, un fiore femmina, uno di quelli risparmiati al mattino, con un lunghissimo stelo vorticante su se stesso come la coda di un drago. Era una tromba marina come non ne aveva mai viste prima, immensa, la coda ricoperta da migliaia e migliaia di squame che brillavano come occhi – occhi di uomini, donne, bambine, bambini, che la guardavano avidi da un tempo che lei non sapeva.

– Chi sei?, chiese Carmela, tremando.

– Guardami, rispose la DDraunara, irta contro il cielo. Guardami bene, dimmelo tu chi sono.

E Carmelina la guardò, e vide.

Vide Antonino, vide i momenti di passione che ancora non sapeva, e quelli di dolore infinito, che non sapeva nemmeno; vide i figli che avrebbe avuto, e che sarebbero morti, e quelli che invece avrebbero vissuto; vide il dolore di lui, incontenibile – e guardò altrove, senza respiro. Vide tra le squame, verdi come il suo smeraldo, un’altra Carmela, una bambina che un giorno sarebbe nata, vide in un istante la vita che avrebbe avuto, i dolori, le gioie, le soddisfazioni, le insicurezze. Vide che questa Carmela l’avrebbe accompagnata alla morte, senza saperlo, su una scalinata di pietra che lei non avrebbe potuto salire perché là il cuore le si sarebbe fatto pure di pietra. Vide se stessa per sempre custodita nel cuore di Carmela, che avrebbe dato alla luce una bambina nello stesso giorno in cui per tanto tempo aveva festeggiato la nascita di lei; e per morire, un giorno lontano, questa stessa Carmela avrebbe scelto lo stesso giorno in cui lei, più di un secolo prima, aveva sposato Antonino.

Vide un’altra giovane con un altro nome, ma non poi così diverso, che sarebbe nata con un compito immane, quello di riconoscere tutto ciò. Vide che l’avrebbe cercata e trovata, e amata al di là del tempo.

Comprese, Carmela, che la DDraunara era il suo destino, e che quel destino veniva da molto lontano e arrivava oltre, ben oltre ogni pensiero.

La falce con cui avrebbe voluto tagliare quella coda di drago le cadde di mano, rimbalzò su uno scoglio con un suono d’argento e finì in mare, scintillando minacciosa prima di scomparire.

– Carmela, sibilò la DDraunara con un guizzo della coda.

– DDraunara, rispose Carmela tendendole le mani gialle impollinate di vita, – Io sono Te, e attraverso Te sono l’Universo. Prendimi.

Fu allora che la DDraunara improvvisamente sussultò forte. Poi l’avvolse tutta in un risucchio terribile, la sollevò in aria turbinando in un abbraccio spaventoso, e infine, dopo averla deposta sulla sabbia, si rinsecchì crepitando, si fece sempre più piccola, come un vento lieve, un calore, e con un alito caldo si rifugiò nel respiro di Carmela, divenne lei.

I pianti e le preghiere cessarono all’improvviso, e Carmela tornò a casa col cuore pesante ma leggero. Lontano, in fondo alla strada, intravide Antonino che arrivava: era bello, e dimenticò ogni cosa. Corse dentro, a farsi bella per lui, ma quando si vide nello specchio, nel pendente c’erano i riflessi degli occhi che aveva intravisto nelle squame della DDraunara. Che sarà mai?, pensò, è la mia vita, e si leccò le dita.

Quel giorno Antonino la chiese in sposa: le nozze sarebbero avvenute un anno dopo: il 23 dicembre 1866, due giorni prima di Natale, per fare una festa più bella e più lunga di sempre.

Intanto, quel giovedì 2 novembre 1865, il Sindaco di Spaccaforno scrisse una lettera in cui descriveva l’accaduto per come a lui era apparso:

Si vide sortire dal posto della Marza, di rimpètto al lato sciroccale del paese, una tromba marina segnante una colonna a grandi dimensioni che a camin vorticoso si avvicinava all’abitato arrecando danno agli alberi di grosso fusto.

Fu la carità divina che in vicinanza del paese, nello spirar di libeccio, cambiò direzione verso greco. Mentre minacciava invadere i quartieri orientali dell’abitato non può fraseggiarsi il terrore, i pianti e le grida di tutta l’intiera popolazione che, ancorchè pioveva, si slanciava lacrimando in mezzo alle strade per vedere e per allontanare con preghiera l’invadente flagello.

E questo devoto popolo tributò sentimenti di grazie al Cristo protettore della Città”.

Nota dell’Autore:

Il racconto Carmela di Daniela Thomas ed il racconto Marina di Saro Fronte, sono stati scritti dopo uno scambio di informazioni intorno all’evento della tromba marina che sfiorò il paese di Spaccaforno nel anno 1865.

E’ stato concordato tra gli autori l’utilizzo di comuni “ingredienti” come esercizio di stile,  che non vi sarà difficile individuare in entrambi i lavori.

Buona lettura.